Maria Roberta Novielli, specializzata in Cinema presso la Nihon University di Tokyo, insegna discipline legate al cinema e alla letteratura giapponese, oltre che ai processi multimediali asiatici, presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. È curatrice del sito AsiaMedia e organizza e dirige il “Ca’ Foscari Short Film Festival”. Ha collaborato a varie attività cinematografiche presso festival internazionali (Venezia, Tokyo, Locarno, tra gli altri), dove in molti casi ha organizzato rassegne filmiche. Tra le sue pubblicazioni principali, le monografie Storia del cinema giapponese (Marsilio 2001), Metamorfosi. Schegge di violenza nel nuovo cinema giapponese (Epika 2010) e Lo schermo scritto (Cafoscarina 2012).
L’ho intervistata in occasione della pubblicazione del suo nuovo volume Animerama. Storia del cinema d’animazione giapponese (Marsilio 2015), presentato presso la Biblioteca “Renzo Renzi” di Bologna nell’ambito del Future Film Festival 2015.
Da cosa è nata la tua passione, o vocazione, per lo studio del cinema giapponese?
Al di là del fatto che in passato ho studiato lingue orientali, l’interesse per il cinema è nato dall’incontro con regista Oshima Nagisa – che ha poi scritto l’introduzione alla mia Storia del cinema giapponese – perché aver visto i suoi film mi ha dischiuso universi incredibili. Ho scritto la mia tesi sul suo Ecco l’impero dei sensi, ho avuto la possibilità di incontrarlo e intervistarlo e ho capito che quella era la mia strada; poi sono andata a Tokyo, dove ho studiato per una specializzazione in cinema, e il resto è venuto naturalmente da sé nel tempo.
L’amore per il cinema è venuto dopo, o insieme con quello per il Giappone?
Insieme al Giappone ho scoperto complessivamente il cinema, perché dedicai la seconda metà del mio ciclo di studi universitari – allora si parlava di lauree quadriennali – a una full immersion nel cinema, cominciai a fagocitarlo, come del resto fanno sempre i giovanissimi, a vivere nei festival, a studiarlo a fondo; e diciamo la verità, è stata una fortuna.
In Animerama racconti la storia del cinema d’animazione giapponese. La scoperta del cinema d’animazione è avvenuta successivamente, o contemporaneamente a quella del cinema dal vivo?
In realtà, e questo l’ho accennato nella prefazione, quando ho scritto la storia del cinema giapponese avrei già voluto contemporaneamente parlare anche di cinema d’animazione, perché naturalmente in molti casi le storie si intersecano, o perché ci sono realtà produttive simili, o ancora perché si incontrano molti registi che sono passati alternativamente dal cinema live all’animazione, come per esempio Ichikawa Kon; ma sarebbe stato impossibile farlo in modo esaustivo, perché sono storie talmente ampie che avrei dovuto per forza di cose ridurle. Mi ero quindi ripromessa di farne un giorno qualcosa di specifico; poi, durante tutti gli anni della gestione Müller della Mostra del Cinema, ho collaborato come moderatrice delle conferenze stampa dei film giapponesi, e in queste occasioni ho avuto la possibilità di conoscere tantissimi animatori giapponesi, come Satoshi Kon, Miyazaki, Oshii Mamoru, Otomo… Ho incontrato praticamente tutti i nomi più importanti e l’interesse si è ampliato ulteriormente, anche se ho una grande passione per il cinema animato indipendente, come si sarà capito dal libro.
Mentre in Occidente c’è una netta separazione tra chi dirige fin d’animazione e chi realizza fin dal vivo, tanto che i primi sono quasi considerati di serie B, in Giappone sembrano godere di un grande rispetto, se un romanziere come Tsutsui Yasutaka si è rivolto a Satoshi Kon per proporgli di realizzare un film dal suo romanzo Paprika. Secondo te da cosa dipende?
Secondo me una delle ragioni principali è il fatto che tuttora – anche se forse un è po’ meno vero negli ultimi anni – in Occidente l’animazione è considerata un prodotto destinato all’infanzia; mentre già dal passato in Giappone esiste un’animazione prodotta esclusivamente per un pubblico adulto, per cui molti autori e scrittori di opere originali ritengono di poter trovare proprio nell’animazione un universo immaginifico ideale per rappresentare le proprie opere. Anche qui da noi una tendenza analoga inizia a prendere piede, basti pensare a Patrice Leconte e ad alcuni tentativi di animazione fatti da registi che di solito lavorano con il live, come ha fatto Tim Burton in passato.
Secondo te, il fatto che in Giappone si produca tanta animazione per la televisione permette anche un passaggio di talenti tra l’animazione televisiva e quella cinematografica, o sono due ambienti separati e non comunicanti?
A mio giudizio, al di là di pochi autori, che hanno saputo creare naturalmente un’osmosi perfetta tra i due ambiti – e uno di questi è Satoshi Kon, perché con la sua unica animazione televisiva, Paranoia Agent, ha di fatto portato il suo cinema in tv – in linea di massima i due ambiti sono ancora piuttosto demarcati; infatti di solito le versioni cinematografiche di famose serie televisive continuano ad avere l’etichetta “gekijo-ban”, che vuol dire “versione per la sala” proprio per ricordare che c’è un progenitore televisivo. Non c’è una vera mescolanza tra i due ambiti. Del resto lo dimostrano alcuni tra i registi che hanno diviso l’intera carriera tra le due aree, lo stesso Miyazaki nelle serie televisive e nelle opere cinematografiche dà un imprinting autoriale completamente differente, e Tezuka Osamu era tra i primi a ritenere che le serie televisive per lui fossero marginali e finalizzate a un ritorno economico, mentre al cinema sperimentale animato dedicava tutta un’altra atmosfera. Sì, credo che a tutt’oggi siano ancora sfere completamente distinte.
Tra gli autori più classici del cinema d’animazione, a parte Miyazaki che forse l’unico conosciuto globalmente anche dal pubblico generalista, qual è quello che più ti affascina, anche da un punto di vista del tutto personale?
Il mio autore preferito, posso dirlo, è proprio Satoshi Kon, che purtroppo è scomparso pochi anni fa, e che moderando la conferenza stampa di Paprika a Venezia ho avuto il piacere di conoscere – e di apprezzare l’uomo oltre che il film; e devo dire che è conosciuto e amato da moltissimi italiani, lo vedo durante il mio corso di storia del cinema d’animazione a Ca’ Foscari, tutti i miei studenti hanno visto e apprezzano i suoi film. Poi ce ne sono altri che sono arrivati solo marginalmente in Italia, per esempio un altro autore che amo moltissimo ed è un po’ più giovane e meno conosciuto nel circuito internazionale: si chiama Yamamura Koji, è stato candidato all’Oscar con uno dei suoi cortometraggi, e il suo cinema è splendido, una magia di forme – però nonostante ciò non ancora avuto una distribuzione capillare proprio perché lavora soprattutto sul cortometraggio, e come sappiamo in questo senso i cortometraggi sono penalizzati.
Fra gli autori delle ultimissime generazioni, i più nuovi, c’è qualcuno che ritieni meritevole di particolare attenzione ? E questi continuano sulla linea tracciata dai loro predecessori, o gli autori che si affacciano adesso, cresciuti con le nuove tecnologie e i nuovi media, mostrano un cambiamento di contenuti e forme espressive?
Secondo me sì, c’è una differenza, e questo è dovuto principalmente al fatto di concepire in molti casi l’opera già per una destinazione sul Web: questo permette una maggiore libertà d’espressione, anche una maggiore libertà di sperimentazione, e moltissimi stanno muovendo i primi passi proprio direttamente in questa direzione. Per esempio uno di loro, anche se piuttosto legato ancora a Miyazaki come tipologia di immagine, è Shinkai Makoto, che è ormai diventato un nome celebre, molto conosciuto per film come Viaggio verso Agartha, però le sue prime animazioni sono state proprio sperimentazioni per i Web a cui ha dato un taglio molto particolare, in cui tentato passaggi un po’ inusuali per l’animazione – ma ci sono tantissimi nomi promettenti in questo ambito.
Maria Roberta Novielli
Storia del cinema d’animazione giapponese
Venezia, Marsilio 2015