In vista dell’incontro del 7 maggio presso la Biblioteca “Renzo Renzi”, abbiamo intervistato tre delle ospiti: Veronica Innocenti, docente presso il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna, e curatrice insieme con Alice Autelitano del numero speciale di Cinéma & Cie dedicato alle serie televisive europee; Sara Martin, docente presso il DAMS di Gorizia, Università degli Studi di Udine e curatrice del volume La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo; e Paola Brembilla, dottoranda in cinema all’Università di Bologna, che a quest’ultimo volume ha contribuito con un saggio sulla serie televisiva “Grimm”.
Cinema e televisione hanno sempre avuto un rapporto conflittuale – competendo per il pubblico e raccontando con modalità e sintassi diverse, ma sfruttando le stesse categorizzazioni in generi, scambiandosi talvolta i protagonisti (sceneggiatori, attori, più di rado registi), e spesso condividendo le strutture produttive. Oggi le produzioni televisive hanno raggiunto in qualità narrativa e valori di produzione il cinema, e questo a sua volta ha riscoperto modalità seriali. Le storie iniziano al cinema, continuano sul Web, poi sul piccolo schermo e infine ancora al cinema, ogni contenuto può essere usufruito su ogni dispositivo, e un regista “cinematografico” come Woody Allen annuncia che produrrà una serie per Amazon – cosa sta succedendo? Ha ancora senso parlare di ri-mediazione o ri-locazione, o anche di narrazione transmediale?
PAOLA BREMBILLA: secondo me dovremmo prima di tutto parlare di legittimazione della TV. La Quality Television, consolidandosi e diventando il nuovo standard, ha permesso alla televisione di legittimarsi in quanto medium, e di poter oggi essere messa a confronto con il cinema, cosa che non era mai stata fatta prima. Ci sono grandi registi, come Steven Spielberg o Martin Scorsese, che hanno iniziato in televisione, ma di questo non si parla molto, mentre fa notizia che Woody Allen adesso se ne va in televisione – ma ricordiamo che anche Hitchcock ha fatto TV. Diciamo che questa legittimazione passa attraverso una dimenticanza o una sorta di “presa in giro”, che questa televisione è meglio perché quella del passato era la televisione brutta, quella popolare, che non guardava nessuno; ma in realtà questi scambi già avvenivano spesso – mi viene in mente anche Bruce Willis in Moonlighting – molti iniziavano in televisione e quella era la loro scuola.
Per quanto riguarda la ri-mediazione, non so se abbia senso parlarne, perché sono comunque media molto diversi, che restano tali anche nel linguaggio. Ci sono certamente contaminazioni, e sì, il cinema prende dalla serialità; ma lo ha sempre fatto con i sequel e i prequel, e soprattutto per ragioni economiche. Trasformare Starsky e Hutch in una serie cinematografica sarebbe stato redditizio, l’operazione è fallita perché il film è stato un flop ma ci hanno provato; e così pure per Sex and the City, il tentativo è stato fatto e dal punto di vista degli investimenti ha funzionato grazie agli accordi di product placement, e a quelli con le film commission dei Paesi arabi… Ci sono sempre e soprattutto ragioni economiche.
SARA MARTIN: Parlare di narrazione transmediale, sì, secondo me ha ancora senso. Proprio perché ci troviamo di fronte a questa interpolazione tra cinema, Web e televisione, che dal mio punto di vista non può che condurre a nuove strade: strade fruttuose, come stiamo vedendo adesso, nel senso che personalmente io ho un’opinione molto positiva dell’humus che si respira in questo periodo di [contaminazione] tra televisione e Web che è la nuova frontiera. Come abbiamo ricordato, Woody Allen realizzerà una serie per Amazon, il che ci pone un interrogativo: è una serie televisiva o una serie Web? E quindi ci si sposta di nuovo in un tentativo di riallocazione del prodotto audiovisivo in sé; ma secondo me la possibilità di lavorare attraverso tutti questi mezzi non può che dare ottimi frutti dal punto di vista dei prodotti della narrazione.
VERONICA INNOCENTI: Credo che l’idea di Henry Jenkins di “convergenza” vada forse sottoposta ad alcune revisioni ma sia ancora abbastanza utile per capire quello che sta succedendo. È necessario fare un discorso su diversi livelli, perché – come Jenkins dice bene nei suoi scritti – la convergenza non è solo un fenomeno tecnologico o culturale, ma è anche un fenomeno di tipo economico. Uno degli aspetti su cui ci dobbiamo concentrare è l’idea che queste produzioni, che si modulano tra diverse piattaforme di fruizione e utilizzano diversi modelli e formati narrativi per soddisfare le esigenze di un pubblico sempre più complesso e dai gusti sempre più definiti, siano anche il risultato dell’esigenza di realizzare economie di scala e ridurre il margine di rischio che è sempre connaturato alla produzione, sia in ambito televisivo che in quello cinematografico. La mia idea è che ci sia una necessità contingente, in questo momento anche di crisi economica, di utilizzare sempre di più matrici narrative che siano già state testate in contesti specifici – cinematografici, televisivi – e poi estese a un ambito più ampio perché comunque danno un margine di rischio minore. Mi sembra che questa possa essere una delle chiavi di lettura di quello che accade nella contemporaneità: penso per esempio al “Marvel Cinematic Universe”, un universo narrativo articolato, complesso, in cui a volte è difficile orientarsi ma che comunque prevede per lo spettatore la possibilità di avere punti d’accesso diversificati: ci si può entrare da un mid-season replacement come Agent Carter sulla fidanzata di Capitan America, o dai film per il grande schermo, o da Agents of Shield, e così via.
Ha ancora senso parlare di media al plurale o siamo di fronte a un unico medium fluido, che passa e si trasforma attraverso i vari dispositivi e le varie forme?
VERONICA INNOCENTI: Questa è una buona domanda. Forse l’idea che a volte ne abbiamo, di compartimenti stagni – la televisione in un mondo a sé stante rispetto al cinema, o alla radio – è un concetto che va ripensato: sicuramente uno dei grandi successi in quest’anno nell’ambito della serialità è un podcast radiofonico, Serial, la cui chiave è quella di un giallo ispirato a una storia vera. Si tratta di un prodotto che è andato molto bene e ha un po’ rilanciato l’attenzione nei confronti del medium radiofonico – che comunque non è mai morto o andato in disuso e, anzi, la serialità ha sempre trovato un grande partner nella radio.
Forse bisognerebbe proprio cominciare a ripensare questi media proprio perché gli strumenti che oggi abbiamo a disposizione integrano tutto in un unico device. È vero, per esempio, che Jenkins non crede nella convergenza tecnologica nel senso di un solo apparecchio, una “Black Box” che fa tutto; però oggi abbiamo una serie di strumenti attraverso i quali possiamo fruire di contenuti diversificati: uno smartphone o un tablet ci permettono di accedere a contenuti audiovisivi di tipo filmico, di tipo seriale televisivo, ed eventualmente anche di tipo seriale radiofonico… mi sembra che ci sia la tendenza ad andare verso un’integrazione che forse ci dovrebbe far riflettere, essere il grilletto che ci fa ripensare la distinzione fra i diversi mezzi di comunicazione.
PAOLA BREMBILLA: Secondo me possiamo ancora continuare parlare di media al plurale, e anche di esperienze di visione diverse, perché la televisione resterà televisione e il cinema cinema. Come ricordava Veronica, l’unica che forse potrebbe mettere in crisi questo modello è la Marvel, che davvero ha creato un universo che mette insieme tutto – per esempio è già chiaro che Agents of Shield sta preparando il terreno per Capitan America: Civil War, perché in televisione si vedono già formarsi le fazioni che si scontreranno nel film; non è più la televisione che fa un crossover con il cinema ma il cinema a farlo con la televisione. Questo è un caso interessante che potrebbe cambiare una dialettica che al momento mi sembra ancora separata.
SARA MARTIN: Io credo che si possa cominciare a pensare di trovarsi di fronte a un unico medium fluido; mi sembra questa la dimensione che stiamo intravvedendo in questo periodo, ma soprattutto proprio negli ultimi due anni, da quando grazie a successi come House of Cards piuttosto che Transparent Netflix, Amazon e altri grossi portali Web si sono affacciati e hanno mangiato una parte di quello che era il mercato televisivo.
A vostro giudizio, c’è un film, una serie, un prodotto che ha segnato un punto di svolta, uno spartiacque in questo processo? Quale?
VERONICA INNOCENTI: D’istinto, la mia personale passione mi spingerebbe a citare E.R.. Credo che E.R. abbia veramente cambiato la relazione tra lo spettatore e il prodotto seriale televisivo. C’era già stata la seconda golden age di cui parla Thompson, iniziata con i prodotti della MTM come Hill Street, si era già sviluppata l’idea di una narrazione multilineare, di un prodotto che unisse un anthology plot e un running plot; ma E.R. ha lavorato moltissimo sull’immagine, sulla qualità registica e visiva, si è ispirata a prodotti cinematografici – c’è una puntata tutta costruita a ritroso come Memento, un’altra ispirata a The Breakfast Club di John Hughes. È una serie che ha cominciato a lanciare un’idea di qualità autoriale – era stata creata da Michael Crichton – e registica, con registi che venivano dal cinema e si sono prestati a dirigere alcuni episodi come Tarantino, l’uso della steadycam e di altri accorgimenti tecnici che ancora non erano stati sfruttati nella serialità televisiva e da allora in poi invece cominciano a porre lo spettatore in una nuova relazione con la serie. È stato un prodotto estremamente longevo, che è durato quindici anni, che è andato bene a lungo, e che considero davvero uno spartiacque, dopo il quale la golden age si è consolidata dal punto di vista delle strutture narrative e si è aperta una fase nuova di attenzione all’impianto dei prodotti seriali che sarà evidente anche in molte altre produzioni successive, come per esempio tutta la serialità HBO degli anni Duemila.
PAOLA BREMBILLA: Dal punto di vista della Quality Television secondo me ci sono stati tanti prodotti innovativi. Partiamo dai Sopranos per andare al già citato Sex and the City, ne possiamo elencare davvero parecchi e non ce n’è solo uno che abbia rappresentato il punto di svolta, perché molti citano The Wire, ma altri preferiscono ricordare i Sopranos che avevano avuto maggior successo.
Per un altro tipo di televisione, che con Guglielmo Pescatore abbiamo chiamato high concept, e che è la televisione com’è diventata dalla metà degli anni 00 in poi, tutti sono concordi nel considerare Lost il vero spartiacque; nonostante poi sia degenerato e il finale sia stato quello che sappiamo, ancora adesso è ricordato come la serie che ha cambiato le cose. Già prima ce n’erano state altre: Buffy, X-Files avevano iniziato a cambiare i format, a ibridare i generi e a serializzarsi, ma Lost è stato quello che ha utilizzato sistematicamente tutti questi espedienti e li ha resi davvero popolari – praticamente tutti hanno visto Lost, ed è stato il Game of Thrones del primo decennio degli anni Duemila.
SARA MARTIN: Anch’io ne citerei più di uno, ma Lost sicuramente è uno degli spartiacque, da un punto di vista di fruizione: attraverso Lost si sono venute a formare anche le community e il popolo del Web ha cominciato a occuparsi in maniera attiva e non solo passiva della serialità televisiva. Forse, se vogliamo parlare di flusso e interpolazione tra vari media, Lost è il punto di partenza.
Vi viene in mente, invece, un progetto ambizioso che sembrava promettente, ma ha fallito nel suo intento di proporsi come esempio di questa nuova serialità complessa e transmediale?
SARA MARTIN: Secondo me, il già citato The Wire non ha fallito completamente, nel senso che è comunque un prodotto magnifico; ma lo ricorderei per la prevalenza totale della struttura narrativa orizzontale del suo racconto – e di conseguenza per la mancanza di una struttura narrativa verticale con una chiusura episodio su episodio – che forse ha alzato troppo l’asticella per quel periodo. È stato apprezzatissimo dalla critica televisiva e dagli studiosi di televisione, ma per il pubblico forse era un pochino troppo avanti, all’epoca; adesso invece un prodotto come The Wire potrebbe funzionare.
VERONICA INNOCENTI: Il primo titolo che mi viene in mente è un prodotto che aveva ambizioni high concept, e quindi di prodotto utilizzabile anche su altre piattaforme: Flashforward, che non ha funzionato in questo senso ma si proponeva come il nuovo Lost, soprattutto per il modo in cui è stata costruita la campagna promozionale.
PAOLA BREMBILLA: Sì, Flashforward doveva essere il nuovo Lost e non lo è stato. Anche Fringe voleva essere un nuovo Lost e non c’è riuscito. Il problema è proprio questo: che Lost c’era già stato; e tutte le serie che hanno successo secondo me o hanno un fattore di originalità fin dall’inizio, oppure lo trovano strada facendo, come scrivo di Grimm nel saggio incluso nel volume La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo. C’è stata un’altra serie, Defiance, che era legata a un videogioco, e ha cercato di fare qualcosa di veramente originale, però è diventata troppo di nicchia perché per riuscire a capirla bisognava davvero giocare al videogioco e viceversa. Le serie Agents of Shield e Agent Carter, per riprendere il discorso di prima, hanno fatto qualcosa di diverso per la filosofia Marvel di universo connesso, che è diversa da quella di DC Comics, i cui prodotti almeno per il momento sono tutti scollegati perché hanno target differenti e coprono mercati differenti. Marvel invece vuole un unico grande mercato.
Quanto è differente oggi la situazione tra USA ed Europa? Vedete evoluzioni interessanti?
VERONICA INNOCENTI: Questo è ciò che ci aveva stimolato a realizzare il numero monografico di Cinéma&Cie sulla serialità televisiva in Europa: credo che abbiamo avuto il merito di intercettare per primi una tendenza, che si sta sempre più consolidando, a produrre serie al livello dei prodotti americani. È vero che c’erano già i prodotti britannici, che hanno da tempo una propria diffusione e impatto sul pubblico; però negli ultimi anni abbiamo avuto occasione di vedere serie che invece provengono da altri paesi – non ultima l’Italia, per esempio con il lavoro che sta facendo Sky – e che sembrano effettivamente funzionare anche in un mercato diverso da quello di origine. Volevamo testimoniare questo elemento di novità nella serialità europea, che cominciando a uscire dai confini del mercato domestico supera il limite che storicamente l’ha frenata e inizia a circolare a livello europeo e internazionale. Les Revenantes ne è un esempio, come pure tutta la serialità scandinava, che è spesso conosciuta nella forma del remake americano ma che lo spettatore più attento riscopre anche nelle versioni originali; mi sembra che viviamo un momento in cui, grazie anche una serie di cambiamenti tecnologici, la circolazione di questi prodotti si è molto allargata, li ha resi finalmente fruibili anche in contesti diversi da quelli originali, e ci rendiamo conto che gli americani non sono gli unici capaci di realizzare prodotti seriali. Sono bravi, non si discute, ma ci sono anche gli europei: e anche gli italiani che in questo momento, soprattutto con la serialità di Sky, non hanno niente da invidiare ai cugini statunitensi.
PAOLA BREMBILLA: in Europa si sta creando qualcosa di interessante, che va però sempre visto dall’ottica della produzione nazionale. Se pensiamo per esempio alle serie di Sky, in un contesto globale le serie americane probabilmente restano superiori, ma nel nostro quadro nazionale sono qualcosa di veramente innovativo per l’Italia. Lo stesso accade in Francia, le serie che sono riuscite a uscire dal contesto francese sono quelle meno autoreferenziali, che non hanno parlato solo della società francese ma si sono aperte a generi come la fantascienza o l’horror.
SARA MARTIN: La struttura, l’impostazione è completamente diversa tra America ed Europa: anche a livello televisivo da loro esiste uno studio system che noi non abbiamo, un modo di fare serialità all’americana basato su una struttura d’impresa di tipo piramidale che in Italia e in Europa non esiste. Come si diceva, l’Inghilterra viaggia da sola e non può essere inclusa in questo discorso proprio perché invece a livello seriale sta producendo serie di enorme valore soprattutto nella serialità breve, nelle mini-serie.
Nel resto dell’Europa le cose stanno molto diversamente; ma è vero che c’è una corsa, un tentativo di riuscire a proporre prodotti europei di valore pari a quelli americani, che in alcuni Paesi ha dato risultati. Per esempio l’ultimo Gomorra sicuramente ha una complessa struttura narrativa che nulla ha da invidiare alla migliore delle serie americane così come Les Revenantes francese, che abbiamo trattato anche nel volume. Certo è che a mio giudizio viene a mancare la massa critica: in Europa siamo incapaci di correre come gli Stati Uniti, proprio perché abbiamo un sistema produttivo che non ci permette di realizzare così tanto, così in fretta, con team di sceneggiatori, e ci manca proprio la figura, che ormai è diventata indispensabile, dello showrunner. In Europa facciamo ancora fatica a ragionare in termini di un sistema industriale di questo genere.
Come cambia, alla luce di questa nuova permeabilità e pervasività dei prodotti dell’immaginario seriale, il lavoro del critico, e quello dello studioso (che non sono, ovviamente, la stessa cosa)?
SARA MARTIN: Questo è un punto su cui io stessa mi sto interrogando. Il lavoro dello studioso forse cambia meno di quello del critico, perché il primo può in qualche modo isolare il prodotto seriale e studiarlo in quanto tale, per esempio a livello narratologico: può, se vuole, decidere di non occuparsi, se non marginalmente, della costruzione del fandom che ruota intorno all’universo seriale, o di fare di questo l’oggetto del suo studio. Il critico ha maggiori difficoltà, perché deve confrontarsi con forme di critica ufficiali e non ufficiali, non categorizzabili – soprattutto sul Web – che hanno tempi e sviluppi rapidissimi, e nuovi modi di fare critica, come per esempio la critica video su YouTube, che sta molto velocemente affermandosi. In presenza di tutte queste forme di critica – alta o bassa, comunque la si voglia chiamare – talvolta molto complesse, fatte anche da appassionati per cui la linea che divide la critica dalla telefilia, dall’amatoriale, dalla passione diventa difficile da tracciare, il critico tradizionale è in una situazione abbastanza scivolosa, perché comunque non può non tenerne conto.
PAOLA BREMBILLA: Secondo me il lavoro del critico è davvero più complicato, perché deve non solo, come noi studiosi, trovare nuovi strumenti di ricerca – quelli alla fine si trovano – ma proprio impostare il lavoro in modo completamente diverso: decidere se recensire il singolo episodio, l’intera serie, l’intero universo narrativo; e se una serie parte bene e finisce male, cosa dice, che non vale la pena di vederla? Sono domande che si deve porre, soprattutto adesso con la modalità distributiva di Netflix, che distribuisce contemporaneamente tutti e tredici gli episodi di una stagione di House of Cards e i critici – per esempio quelli che scrivono sui siti on-line come Seriangolo –si chiedono se recensire l’intera stagione, il che però richiede tempo e rende difficile uscire tempestivamente, oppure episodio per episodio, con il rischio che invece l’utente non legga perché preferisce fare binge watching e vederseli tutti in un weekend? Sono dubbi non semplici da risolvere, soprattutto per i critici che già hanno l’abitudine a lavorare in una data modalità.
VERONICA INNOCENTI: Rispondo dal punto di vista dello studioso, più che del critico, perché la critica non è il mio settore. Anche per lo studioso, occuparsi di serialità è diventato abbastanza complesso, perché la serialità è un oggetto di difficile fruizione anche nella sua forma classica, quella dell’episodio settimanale televisivo: in un caso come quello di E.R., che dura quindici anni, ci sono più di trecento episodi, e si è costretti ad andare per campionatura. Il fatto che questi prodotti diventino poi sempre più transmediali, e facciano sempre di più da “matrice” per la produzione di altri oggetti che spesso sono progettati in modo integrato, rende difficile lasciarne alcuni da parte, perché essi comunque fanno parte di uno stesso universo e di un unico sistema narrativo E il lavoro dello studioso si complica ulteriormente.
Talvolta dico scherzando dico che vorrei solo materiali come Black Mirror, cioè tre puntate di un’ora e basta! Altrimenti diventa sempre più complicato rincorrere anche tutta la produzione di paratesti promozionali, che sono molto interessanti e servono anche allo spettatore per capire le linee di tendenza del prodotto e che però sfuggono e non sempre è facile andarli a recuperare.
Questa progettazione transmediale ha cambiato decisamente il nostro ruolo, anche perché di fronte a un oggetto complesso non è più sufficiente la semplice analisi testuale, a cui siamo abituati noi che veniamo dalla tradizione dell’analisi del film e che è adatta a un oggetto chiuso, definito; oggi è richiesta una serie di competenze diversificate, legate anche all’ambito economico, produttivo, di marketing, e sempre più spesso utilizziamo concetti provenienti dall’architettura dell’informazione o presi a prestito da altri ambiti della comunicazione.
Cinéma & Cie International Film Studies Journal
n. 19 (autunno 2012):
European TV Series / Séries Tv Européennes
a cura di Alice Autelitano e Veronica Innocenti
Carocci, Roma 2012
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La costruzione dell’immaginario seriale contemporaneo.
Eterotopie, personaggi, mondi
a cura di Sara Martin
Mimes Cinergie, Milano 2014
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