Ricchissimo di stimoli e molto ben argomentato, il volume di Leonardo Gandini Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo analizza approfonditamente e con lucidità la sempre maggior presenza della rappresentazione della violenza sugli schermi – cinematografici, e non solo – negli ultimi decenni, da Peckinpah a Tarantino.
Partendo dalla constatazione che il pubblico sceglie consapevolmente di vedere pellicole e spettacoli che contengono scene di violenza a cui oggi non ha normalmente occasione di presenziare direttamente – né in realtà lo vorrebbe – Gandini si interroga sui perché di questa attrazione, e della progressione da forme di “stenografia visiva” nelle quali la violenza era suggerita o delineata in tratti essenziali a una “calligrafia della violenza, ricercata e compiaciuta” presente nel cinema contemporaneo, e non spiegabile solo con la maggiore tolleranza del costume e della censura.
L’autore è ben consapevole dell’esistenza di un problema etico, ma anche del fatto che “nel cinema della violenza la morale finisce sempre per inciampare nell’estetica”. Dopo un’ampia introduzione nella quale ricorda le classiche e opposte posizioni filosofiche e pedagogiche sulla valenza catartica della violenza rappresentata o sui suoi possibile effetti deleteri, e il concetto di “violenza legittima” – quella che nel cinema classico hollywoodiano si vuole giustificata perché mira a ristabilire l’ordine sociale – l’autore decide di affrontare l’argomento della componente visiva della violenza cinematografica e dei modi in cui i cineasti contemporanei l’hanno affrontata in modo originale secondo tre coordinate: quelle dello sguardo, della forma, e solo in conclusione della morale.
Nel capitolo dedicato allo sguardo, verificato che un atto di violenza assume inevitabilmente le caratteristiche di uno spettacolo alla cui fascinazione è impossibile sottrarsi, e che quindi condivide con il cinema una necessità estetica, vengono esaminati alcuni dei modi in cui autori contemporanei hanno saputo proporre nelle loro opere – da Natural Born Killers di Oliver Stone a Kick Ass di Matthew Vaughn – uno o, sempre più spesso, molteplici punti di visione, talvolta – come in Sucker Punch di Zach Snyder – addirittura inseriti l’uno dentro l’altro in un gioco di scatole cinesi, con l’effetto di generare nello spettatore la consapevolezza dell’atto della rappresentazione e di conseguenza della visione stessa.
Il capitolo successivo, quello sulla forma, ha come oggetto le modalità con le quali i cineasti, attraverso tecniche di ripresa, di montaggio o addirittura di apparente ri-mediazione – da Gangster Story di Arthur Penn e Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah a Redacted di Brian de Palma – hanno voluto rappresentare la violenza imitandola, ma anche dilatandola all’eccesso o comprimendola al massimo per rendere manifesta la smodatezza in essa implicita; e in ogni caso creando nello spettatore effetti di straniamento che gli permettano il distacco necessario alla riflessione.
Solo a questo punto l’autore, muovendo dalle considerazioni già elaborate, nel capitolo conclusivo riaffronta il tema della morale, per constatare come il pubblico abbia comunque bisogno di creare un senso alla propria esperienza, di prendere una posizione sul piano etico senza rinunciare alla visione della violenza: “lo spettatore vuole vedere il sangue, ma al contempo paradossalmente vuole che questo desiderio rafforzi la sua integrità anziché metterla in discussione”.
Dopo un’attenta analisi di altri significativi esempi – da Seven di David Fincher a Gran Torino di Clint Eastwood, passando buona parte della filmografia di Tarantino – Gandini arriva a concludere che nonostante le apparenze la morale non si trova in contrasto con la rappresentazione della violenza, ma ne diventa il “lasciapassare”; che tuttora prevale l’esigenza di dare alla rappresentazione della violenza “un orizzonte di sensatezza commisurato ai suoi eccessi”, di esercitare una “morale della violenza” comunque presente e centrale – rischiando talvolta di trasformarsi in moralismo – anche nel cinema iper-violento di oggi.
Il volume, benché compatto – poco più di un centinaio di pagine – è estremamente denso di concetti, ma la padronanza dell’argomento e la chiarezza espositiva proprie dell’autore, insieme con la presenza di numerosi e significativi esempi e di rimandi all’attualità, permettono al lettore di seguire il filo di un discorso non facile, e questo è uno dei grandi pregi del testo; oltre al fatto che, mettendo in luce sfaccettature non immediatamente evidenti e offrendo significative riletture di alcuni film recenti, il testo fornisce anche a chi non è uno specialista alcuni strumenti per guardare con occhi nuovi e più consapevoli a una parte importante del cinema contemporaneo.
Leonardo Gandini
Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo
Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2014